L’Apologetica

di G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 504-511.

 

Oxford, Balliol College Library. Ms. balliol. 79 (O^), Tertulliano, Apologeticum, con marginalia di William of Malmesbury (XV sec.), f. 1r.

Accanto a […] forme di letteratura a volte popolare, ma non per questo meno interessante anche sul piano della resa stilistica, intorno alla fine del II secolo compaiono anche i primi scrittori latini cristiani sui quali si posseggono informazioni sufficienti perché siano presentati con un’immagine più compiuta. La produzione letteraria che si propone la diffusione delle teorie cristiane e la loro difesa dagli attacchi dei pagani va sotto il nome di apologetica, ed apologisti sono comunemente chiamati questi scrittori che operano tra gli ultimi anni del II e i primi del IV secolo. Anche per queste opere c’è da segnalare un più rapido sviluppo nel mondo orientale, ed un relativo ritardo in quello occidentale: le prime Apologie scritte a Roma sono opera di Giustino, martire nel 165, ma sono scritte in greco, e ancora in greco sono varie altre opere di poco più tarde scritte con le medesime intenzioni in diverse parti dell’Impero. I primi a scrivere in latino sono Minucio Felice e Tertulliano, ai quali spetta il titolo di primi autori latini cristiani. Quale dei due sia più antico è problema pressoché insolubile: di Tertulliano conosciamo bene molte vicende, e possiamo ragionevolmente ricostruirne la cronologia; tutto più incerto è invece per Minucio Felice, e gli argomenti su cui ci si basa per considerarlo più o meno recente di Tertulliano sono prevalentemente soggettivi e reversibili, o interpretabili in maniera diversa, a seconda delle tesi sostenute dagli studiosi. È comunque importante osservare che fin dagli inizi si manifesta – nelle diverse posizioni assunte da Minucio e Tertulliano – quella che sarà una costante all’interno della produzione letteraria cristiana: da un lato (con Minucio) una tendenza conciliante, che cerca di non rompere con il passato classico e di recuperare da esso quanto non sia in stridente contrasto con il messaggio cristiano; dall’altro (con Tertulliano) un atteggiamento di rigorosa intransigenza, che postula una decisiva svolta rispetto al mondo pagano ed ai suoi valori, anche se tale svolta si esprime in una lingua letteraria che risente comunque degli insegnamenti retorici della formazione scolastica (che è comune a pagani e cristiani).

Paris, Bibliothèque Nationale de France. Cod. Par. lat. 1622 (Agobardinus, IX sec.), Tertulliano Opera omnia, f. 1v.

Quinto Settimio Fiorente Tertulliano nacque a Cartagine intorno alla metà del II secolo da genitori pagani; studiò retorica e diritto nelle scuole tradizionali, dove apprese anche il greco, esercitò la professione di avvocato in Africa, e per un certo periodo anche a Roma, prima del rientro in patria e della conversione, che avvenne soltanto in età piuttosto avanzata, probabilmente verso il 195. Fu anche prete, e le sue posizioni religiose si dimostrano molto rigorose, tanto che nel 213 finì con l’aderire ad una delle sette ereticali più note per l’intransigenza e il fanatismo, quella dei Montanisti; negli ultimi anni di vita abbandonò anche questo gruppo, e ne fondò uno nuovo, che si chiamò dei Tertullianisti. Morì dopo il 220, anno a cui risalgono le ultime notizie che abbiamo su di lui.

Di Tertulliano ci sono pervenuti oltre trenta scritti, a orientamento teologico e polemico; polemiche contro i pagani e contro i cristiani che non condividevano le sue tesi. Fra i più notevoli, vanno ricordati l’Ad martyras, con l’esortazione ad un gruppo di cristiani incarcerati e in attesa del martirio; l’Ad nationes, l’Apologeticum e il De testimonio animae, composti tutti e tre nel 197, per difendere il Cristianesimo dagli attacchi dei pagani; il De praescriptione haereticorum, del 200 circa, contro i cristiani che contaminano la loro fede con dottrine filosofiche pagane e propugnano interpretazioni troppo libere del testo biblico; il De anima, scritto intorno al 211, forse l’opera più notevole della maturità di Tertulliano, nella quale sono rielaborate ampiamente anche fonti pagane; l’Ad Scapulam, del 212, indirizzato al governatore dell’Africa proconsolare che conduceva una campagna contro i cristiani. Accanto a queste vanno ricordate opere che affrontano problemi morali e di comportamento del cristiano nella vita quotidiana, offrendo pertanto al lettore anche spunti interessanti sulla società africana tra II e III secolo: De spectaculis, contro la partecipazione agli spettacoli del teatro, dell’anfiteatro e del circo; De cultu feminarum, sui vestiti delle donne, che debbono essere particolarmente discreti; De virginibus velandis, sull’opportunità che le donne non escano di casa a volto scoperto; De pudicitia, contro i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio; De corona, contro il servizio militare, dichiarato incompatibile con l’appartenenza alla fede cristiana; De idololatria, contro tutte le attività economiche che siano in qualche modo connesse con i culti pagani. Altre opere riguardanti argomenti di carattere liturgico e teologico e altre infine sono dedicate a violente polemiche contro avversari religiosi (Adversus Marcionem, Adversus Praxean, ecc.).

Sansone e i leoni. Affresco, 350-400 d.C. Roma, Catacombe di Via Latina.

L’esperienza professionale dell’avvocato, lo spirito battagliero e pronto a trasformare in durissimi attacchi agli avversari ogni opera che nasceva da esigenza difensive, il gusto per l’improperio, per la descrizione sgradevole e pesante, per uno stile «barocco» e nutrito di efficacissima strumentazione retorica sono caratteristiche comune a quasi tutti gli scritti di Tertulliano, a qualunque periodo appartengano. Se ne può ricavare l’impressione di un personaggio arrogante, disposto a sostenere le proprie tesi con qualsiasi tipo di argomentazioni, a volte anche con ragionamenti discutibili e prove chiaramente false. Questa immagine complessivamente non positiva è aggravata da alcune posizioni che, fuori dal loro contesto, risultano del tutto inaccettabili, come la pervicace demonizzazione di tutto ciò che è femminile e la convinzione che la donna sia il più pericoloso strumento di Satana. Simili pregiudiziali antipatie devono essere però superate, se si vuole capire il ruolo e la posizione di un personaggio certamente focoso, ma non privo di coraggio, trascinato spesso da una violenta carica di rigore e di moralismo. In ultima analisi Tertulliano appare una figura tragica, che non riesce ad amare l’umanità, che si compiace di immaginare e di descrivere tutte le disgrazie che prima o poi capiteranno ai suoi nemici; un uomo che non sa trovare un momento di pace e di tranquillità, almeno in questa vita.

Ma accanto a questi limiti ci sono anche la grandezza del teorico e l’acume del pensatore: tralasciando le questioni più strettamente dottrinali, che qui hanno un rilievo secondario, si pensi all’importanza che ha nell’Apologeticum la definizione del rapporto giuridico tra religione e Stato, impostato con la chiarezza e la professionalità di un avvocato romano. Sempre nell’Apologeticum, è famosa l’argomentazione dell’anima naturaliter Christiana, che tanto successo ebbe nei secoli seguenti: l’anima stessa, se non addottrinata in senso contrario, dimostrerebbe il primato del monoteismo con le invocazioni ad un unico dio nei momenti di difficoltà. La sua incapacità di mediare, il suo intransigente integralismo mettono Tertulliano contro tutto il mondo: significativo, in particolare, è in questo senso il De idololatria, che vede piene di paganesimo, e perciò inaccettabili per il buon cristiano, quasi tutte le attività quotidiane. È il problema del rapporto che l’oppositore di un regime, di uno stato di fatto, deve avere con la realtà che lo circonda: fino a che punto possono spingersi la contrapposizione e il rifiuto senza divenire fanatica rinuncia ed esasperato isolamento, che in definitiva privano anche della possibilità di intervenire per modificare una situazione che si ritiene ingiusta?

Anche per le sue qualità di scrittore Tertulliano ha diritto ad un posto di rilievo nel quadro, complessivamente piuttosto povero, della sua età. Assai personale è l’impasto di parole tecniche del gergo avvocatizio e di termini dell’indiscussa dignità letteraria, piena la padronanza su un periodo volutamente irregolare, spezzato, con interrogazioni ed esclamazioni che interrompono frequentemente l’andamento del discorso, con brevi battute ad effetto, con metafore spinte all’estremo proprie di una fantasia visionaria e allucinata. Il suo successo nella cultura africana è confermato dalla sopravvivenza dei Tertullianisti ancora all’epoca di Agostino, e dal fatto che molti dei suoi temi preferiti ritornano con insistenza nella letteratura cristiana dei primi secoli; non piccolo merito di Tertulliano è anche quello di aver ampiamente contribuito a creare una nuova lingua cristiana, capace di esprimere a livello letterario i dogmi di fede e la problematica della prassi quotidiana del credente.

Il buon Pastore. Affresco, III-IV sec. d.C. Roma, Catacombe di S. Callisto.

Anche lui avvocato ed africano (era nato probabilmente a Cirta, la patria di Frontone), Marco Minucio Felice esercitava la sua attività a Roma, dove godeva di condizioni di buona agiatezza economica. Contemporaneo di Tertulliano, secondo alcuni scrisse qualche anno prima di lui, sul finire del II secolo, secondo altri invece la sua opera va collocata nei primi decenni del III secolo, fra la produzione di Tertulliano e quella di Cipriano. Oltre al dialogo Octavius, che ci ha lasciato, Minucio avrebbe scritto un De fato che non ci è pervenuto.

Il dialogo Octavius si svolge sul lido di Ostia, fra tre personaggi: il pagano Cecilio, il cristiano Ottavio e Minucio stesso. Ottavio rimprovera Cecilio per un gesto di adorazione a una statua del dio Serapide, e Cecilio propone di esporre le reciproche ragioni e di nominare Minucio giudice della controversia; ma dopo le due orazioni, quella di Cecilio contro il Cristianesimo e quella di Ottavio a suo favore, non c’è bisogno di un giudizio, perché Cecilio ammette di essere stato sconfitto.

Serapide. Testa, calcite, II-III sec. d.C. ca. Baltimora, Walters Art Museum.

Gli argomenti discussi sono quelli che compaiono anche negli altri apologeti, compreso Tertulliano: il monoteismo è preferibile, anche razionalmente, al politeismo; i cristiani non sono colpevoli dei misfatti che vengono loro imputati, anzi spesso sono proprio i loro accusatori ad essere macchiati di tali colpe; se i pagani comprendessero le istanze di pace e di amore del Cristianesimo non lo avverserebbero, anzi si convertirebbero subito. La differenza fra la trattazione impostata da Minucio e quella di Tertulliano, ad esempio nell’Apologeticum, non potrebbe però essere più evidente: Minucio è scrittore fine e delicato, rifugge dalle grossolanità che Tertulliano invece ama; Minucio fonda la sua argomentazione sulla logica e sul ragionamento pacato, mentre Tertulliano cerca di emozionare e di colpire i sentimenti. Minucio si rivolge ai pagani colti, per convertirli, e cita quindi con abbondanza gli scrittori classici, astenendosi dai riferimenti alla Bibbia; Tertulliano si scaglia contro i pagani per consolidare i cristiani nella loro fede, e tutt’al più può pensare di conquistare al Cristianesimo le future generazioni, che non si siano ancora macchiate del peccato di idolatria. In conclusione, se Tertulliano colpisce il lettore per il suo gusto dell’esasperazione, Minucio Felice appare al contrario un modello di equilibrio e di buon senso.

Questa differenza ha spesso comportato per Minucio accuse di debolezza e di incapacità, di incertezza nella fede, di prevalenza degli interessi letterari su quelli religiosi; ma chi abbia sufficiente sensibilità per cogliere le sfumature ed i mezzi toni, e sufficiente buon gusto per apprezzare un’opera che rifiuta programmaticamente ogni scadimento di livello, ogni concessione al patetico, dovrà apprezzare la serenità e la dignità della discussione. Ciò non toglie, certo, che molta attenzione sia anche riservata all’aspetto letterario: Cicerone è un modello sempre presente nella costruzione del periodo. Alcune scene della cornice che inquadra il dialogo sono pezzi di bravura giustamente apprezzati, come la famosa descrizione dei ragazzi che giocano sulla spiaggia facendo rimbalzare sull’acqua sassi piatti, la passeggiata sull’estremo lembo di sabbia bagnato dalle onde, la sosta sulla scogliera, dove i protagonisti si siedono a parlare della fresca mattina d’autunno, la conclusione con i tre amici che si salutano contenti della bella discussione, e felici di aver appianato le divergenze.

Col suo tono sereno e al tempo stesso malinconico, con la sua composta razionalità, l’Octavius segna la fine del mondo classico e il passaggio al Cristianesimo sulla linea della continuità, non della rottura, come auspicava Tertulliano. È il Cristianesimo dei ceti dirigenti, i quali non vogliono che il cambiamento di religione sia accompagnato da sommovimenti sociali, e sono convinti che debbano comunque sopravvivere la finezza e l’equilibrio costruiti da secoli di civiltà greco-latina; nel progetto di Minucio non c’è spazio per le «stranezze» giudaiche e per gli estremismi dei cristiani radicali. Non si può negare che il suo Cristianesimo sia autentico e sincero, ma certamente nulla ha della carica rivoluzionaria che ne aveva facilitato la sua diffusione fra i ceti subalterni, e che per alcuni intellettuali – Tertulliano è uno di loro – costituiva ancora il fascino principale della nuova religione.

SS. Cornelio e Cipriano. Affresco, III sec. d.C. Roma, Catacombe di S. Callisto.

Tascio Cecilio Cipriano nacque intorno al 200 a Cartagine, si formò nelle scuole di quella città, fu rinomato maestro di retorica fino al 246, quando si convertì e donò tutti i suoi beni ai poveri. Eletto vescovo alla fine del 248, dovette affrontare la durissima persecuzione decretata dall’imperatore Decio nel 250, durante la quale dimostrò grande coraggio e seppe evitare alla comunità cristiana lutti ancora più gravi; non sfuggì, invece, alla persecuzione di Valeriano nel 257-258, quando fu processato e condannato all’esilio, poi richiamato per un secondo processo, che si concluse con la condanna a morte e il martirio, il 14 settembre del 258.

Vari gli scritti di carattere apologetico, come l’Ad Donatum, sulla propria conversione (alcuni toni autobiografici hanno fatto vedere in quest’opera un «precedente» alle Confessioni di Agostino), e l’Ad Demetrianum, sulle colpe dei pagani e le punizioni divine, o il Quod idola dii non sint, della cui autenticità alcuni dubitano. Altri trattati affrontano questioni connesse con la guida della diocesi di Cartagine, come il De lapsis, sulla questione dell’atteggiamento da tenere nei riguardi di quei cristiani che avevano rinnegato la fede durante le persecuzioni, ma si erano poi pentiti e volevano rientrare nella comunità ecclesiastica; il De catholicae ecclesiae unitate, ferma presa di posizione contro tutte le eresie e gli scismi, che Cipriano considera una sciagura maggiore delle stesse persecuzioni contro i Cristiani (l’opera fu inviata a Roma e utilizzata come la più compiuta teorizzazione del primato papale, minacciato in quel periodo dallo scisma di Novaziano); il De habitu virginum, sui comportamenti che debbono tenere le donne che abbiano fatto voto di consacrarsi a Dio. Molto importante è anche l’Epistolario, che comprende 81 lettere, 65 di Cipriano e 16 a lui inviate; da esso possiamo dedurre precise informazioni sulle condizioni di vita nell’Africa proconsolare alla metà del III secolo e sui problemi che le persecuzioni creavano alle comunità cristiane.

Cipriano fu un grande estimatore di Tertulliano, che apprezzava per la severità delle dottrine: in varie opere riprese argomenti e perfino titoli che erano già stati impiegati dal suo più anziano conterraneo ma, a differenza di Tertulliano, non si lasciò mai prendere la mano dal gusto dell’estremismo. La sua funzione di vescovo e gli obblighi che tale investitura gli imponeva nei riguardi di tutti i fedeli, un innato, ammirevole equilibrio, una notevole dose di buon senso gli consentirono sempre le scelte più ragionevoli: così, dopo la persecuzione di Decio, decise di riaccogliere nella Chiesa i rinnegati (lapsi) pentiti, nonostante l’opposizione di quanti avevano rischiato il martirio per non abiurare, ma impose severe penitenze per chi voleva meritare di essere riammesso alla comunione. Questo atteggiamento non va confuso col lassismo o il permessivismo: Cipriano dimostrò pochi anni dopo, col suo stesso martirio, di non essere disposto a cedimenti, e un’analoga fermezza seppe dimostrare in occasione di uno scontro con il vescovo di Roma, Stefano.

La questione riguardava il battesimo impartito agli eretici: per gli Africani esso non era valido e, a parer loro, bisognava ribattezzare tutti quanti avessero ricevuto il sacramento da preti che si trovassero fuori dalla Chiesa; per il papa, invece, quel battesimo era valido purché fosse avvenuto secondo le forme previste dal rito, e non poteva essere rinnovato. Nato da un problema di prassi pastorale, il conflitto investiva però la ben più grossa questione dell’autonomia delle singole sedi vescovili rispetto a quella di Roma, che si appellava al cosiddetto «primato di Pietro», in base al quale il papa si arrogava un’autorità superiore a quella di tutti gli altri vescovi. Cipriano seppe tessere con grande abilità una fitta rete di alleanze, che comprendeva molti vescovi orientali, per arginare quella che allora era avvertita come un’illecita invadenza del papa; ma la persecuzione di Valeriano e la morte interruppero questa sua iniziativa.

Scena di battesimo. Affresco, fine III-inizi IV sec. d.C. Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro.

Le sue caratteristiche di scrittore si allontanano molto da quelle dell’amato Tertulliano: Cipriano ha un sicuro possesso delle tecniche della prosa classica, nella quale inserisce citazioni bibliche senza alterare l’elegante costruzione della frase e la solennità grandiosa del periodare; lontano dalle provocazioni e dagli eccessi di Tertulliano, ma meno sfumato e labile di Minucio, ha fornito il modello principale ai grandi prosatori cristiani del secolo successivo. Una Vita Cypriani è stata scritta dal diacono Ponzio, che lo conobbe personalmente: è il primo esempio latino di quelle biografie di vescovi e santi che diverranno molto numerose nei secoli successivi.

Tertulliano, Minucio Felice e Cipriano sono i tre principali scrittori di questo secolo, ma accanto ad essi fiorirono molti altri apologisti, a noi più o meno noti, e la polemica fra le diverse sette del Cristianesimo diede vita a una vasta letteratura di argomento teologico e dottrinale, che qui non può essere trattata in maniera esaustiva e neppure accennata con sufficiente ampiezza. Basterà ricordare Novaziano, un prete di Roma, che nella questione dei lapsi si schierò contro Cipriano. Quando, dopo più di un anno di sede vacante, nel 251 fu eletto papa Cornelio, il quale sul problema dei lapsi condivideva le posizioni di Cipriano, Novaziano, postosi a capo del partito rigorista, si lasciò eleggere a sua volta papa dai suoi seguaci, dando vita ad un’eresia che durerà più di un secolo. La sua opera principale è un De Trinitate (un titolo che avrà molta fortuna nella letteratura successiva), oltre ad un De spectaculis e un De bono pudicitiae chiaramente ispirato a Tertulliano.

Vittorino di Poetovium (oggi Ptuj in Slovenia) è un altro ecclesiastico che ci ha lasciato opere in latino; morì martire nel 304, vittima della persecuzione scatenata da Diocleziano. Scrisse molti commenti biblici, sui quali ci informa Girolamo; di essi abbiamo soltanto un commento all’Apocalisse, la più antica opera di esegesi biblica in lingua latina che ci sia giunta.

Le notizie [circa Commodiano] sono talmente incerte che alcuni studiosi lo collocano addirittura nel V secolo, ma sembra più probabile una datazione alla metà del III secolo, quando scoppiarono le persecuzioni di Decio e di Valeriano, alle quali fanno forse riferimento alcuni suoi versi. Da un altro suo passo si ricava che egli era originario di Gaza in Palestina, da dove però doveva essere partito per recarsi in Occidente, probabilmente in Africa, come dimostrerebbero le somiglianze di contenuto con le opere dei contemporanei apologisti africani del III-IV secolo. Ma anche su questi punti gli studiosi sono in disaccordo, e c’è chi esclude la sua origine orientale, e chi pensa che la sua attività si sia svolta nella Gallia meridionale, o anche a Roma.

[La sua opera principale è costituita dalle] Instructiones in due libri, per complessivi 80 componimenti in esametri, di varia lunghezza, da un minimo di 6 ad un massimo di 48 versi. Il primo libro comprende i carmi contro i pagani e quelli contro gli Ebrei; il secondo le composizioni per i Cristiani, rimproverati per i loro peccati ed esortati ad una vita più devota. I carmi sono degli acrostici: le prime lettere dei singoli versi, lette tutte di seguito, formano il titolo del carme stesso, come ad esempio De infantibus, con il primo verso che comincia per d, il secondo per e, il terzo per i, il quarto per n, e così via. [Segue il] Carmen apologeticum, in 1060 esametri, il cui vero titolo era probabilmente Carmen adversos Iudaeos et Graecos, o Carmen de duobus populis: l’opera è tramandata senza indicazione dell’autore, ma l’attribuzione a Commodiano è ormai ritenuta indiscutibile. Argomento del carme è la storia del mondo, quella dell’Antico Testamento e quella di Roma, vista come scontro fra Dio e il diavolo, fino alla distruzione dell’Impero, all’apocalisse e al giudizio universale.

Fra tanti scrittori in prosa il Cristianesimo delle origini produce un solo ma significativo poeta, Commodiano. Egli è per molti aspetti un poeta strano, una voce anomala nel panorama della poesia latina: è interessato alle fasce meno alte della società, e nelle sue opere rappresenta le credenze e le aspirazioni dei diseredati, le loro passioni forti e senza sfumature, avvalendosi di un latino che risente degli sviluppi del parlato e di una metrica priva ormai di continuità con quella dei classici. Anche nel campo della dottrina cristiana le sue conoscenze sono piuttosto approssimative e grossolane, lontane dalle ricche elaborazioni degli apologisti occidentali e dalle raffinate elucubrazioni di quelli orientali: non si spiega bene il ruolo dello Spirito Santo, pensa che gli dèi pagani siano figli degli angeli e di donne mortali, è convinto che la fine del mondo sarà preceduta da un’età felice sulla terra: saranno rovesciati gli Stati che si fondano sull’ingiustizia e sullo sfruttamento dei deboli, e verrà un regno terreno di Dio, in cui i poveri, i derelitti, i maltrattati vedranno esaudite le loro speranze e riconosciuti i loro diritti. Questa speranza, cosiddetta millenaristica, che credeva in un concreto cambiamento delle condizioni di vita sulla terra, prima e più che nelle ricompense celesti del paradiso, era assai diffusa nel Cristianesimo degli ambienti più umili e rispondeva a precise esigenze sociali.

Toro. Mosaico, inizi III sec. d.C. dalle Catacombe di Hermes. Sousse, Musée Archéologique

Se come teorico Commodiano è quantomeno confuso, anche come polemista mostra qualche limite. Ha l’irruenza e la forza di un Tertulliano, e come lui è capace di trovare improperi popolari e pesanti per i pagani e per i Giudei, ma gli manca la fantasia e la capacità retorica dell’avvocato cartaginese: le ripetizioni sono piuttosto frequenti, le volgarità scontate e poco efficaci. I tratti più incisivi sono il rigoroso moralismo, la profonda convinzione di essere dalla parte giusta, lo scontro con le morenti istituzioni classiche. L’ardore con cui sono presentate le visioni apocalittiche, e le speranze rivoluzionarie in esse riposte, fa sì che Commodiano sia stato definito l’ultimo dei profeti; l’unico che si sia espresso in lingua latina. Riconoscere fino a che punto l’autore si faccia convinto portavoce di istanze popolari e quanto invece egli conceda ad un atteggiamento demagogico è cosa senz’altro difficile; e in questo senso, la lettura di Commodiano lascia sempre incerti e sconcertati: ci si domanda se uno scrittore, comunque un uomo di cultura, potesse condividere certi livelli di primitivismo, o se egli non avesse invece fatto proprie certe rivendicazioni a scopo di provocazione letteraria, religiosa e politica.

Il verso di Commodiano colpisce per la sua anomala prosodia, completamente diversa da quella classica. L’esametro non è più una successione regolare di sillabe brevi e sillabe lunghe, ma una riga composta di un certo numero di sillabe (non più diciassette e non meno di dodici); è l’andamento degli accenti tonici delle parole, non l’alternanza quantitativa, a garantire il ritmo nell’insieme. In questo senso Commodiano anticipa l’evoluzione che dalla metrica quantitativa porterà alla poesia accentuativa propria delle lingue romanze.

Damnatio ad bestias. Mosaico, II-III sec. d.C. da Zliten. Tunis, Musée du Bardo

Questa novità si mescola con un lessico elementare e ripetitivo, con una sintassi semplificata ai limiti del possibile, con una logica sommaria e a volte assurda nella sua partigianeria. Ne risulta, come dicevamo, l’immagine di una figura atipica e stimolante: uno scrittore che non ignora completamente i classici e le tradizioni, ma li riprende in forma banalmente scolastiche o estremamente modificate, involgarite, popolareggianti; un poeta che si presenta come portavoce degli emarginati, con tutte le loro spinte irrazionali, violente, ma anche con una sete di giustizia confortata dalla promessa divina; un polemista che alterna le piccole meschinità dell’invettiva personale contro l’avversario a vasti affreschi cosmici sul ritorno del Cristo e il fuoco che brucerà i malvagi, risparmiando i pochi onesti che ci sono a questo mondo.

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