Sposarsi ad Atene: significato e funzione del rito in epoca classica

di J. REDFIELD, L’uomo e la vita domestica, in J.P. VERNANT (ed.), L’uomo greco, Roma-Bari 2007, 157-163.

Sul piano della natura, il ruolo civile delle donne era quello di produrre cittadini, cioè eredi maschi dei capifamiglia che componevano la città; sul piano della cultura, le donne fungevano da pegno in una transazione fra suocero e genero. Questa transazione era la ἐγγύησις o ἐγγύη, la stipula di un accordo ufficiale tra il padre della donna e il suo pretendente, attraverso il quale la tutela e la dote (προίξ) erano trasferite dall’uno all’altro. Negli stessi termini avveniva il trasferimento in garanzia di qualsiasi altra cosa o merce. ἀλλ’ ἐγγυῶ παίδων ἐπ’ ἀρότῳ γνησίων / τὴν θυγατέρ’ ἤδη μειράκιόν σοι προῖκά τε / δίδωμ’ ἐπ’ αὐτῇ τρία τάλαντα («Ti affido mia figlia per la procreazione di figli legittimi e le assegno una dote di tre talenti»). Sono le parole con cui Callippide dà in sposa la figlia a Gorgia nel V atto del Dyskolos di Menandro (vv. 842-844). Il poeta comico riproduce nell’opera questa pratica con tanto di formula giuridica che sanzionava e certificava l’avvenuta transazione.

Signacolo funebre di Hegeso. Stele decorata a rilievo, marmo pentelico, c. 410-400 a.C. dal Ceramico. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Signacolo funebre di Hegeso. Stele decorata a rilievo, marmo pentelico, c. 410-400 a.C. dal Ceramico. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Secondo il diritto attico, la dote formalmente non apparteneva mai al marito, che la teneva in custodia per i figli ed era tenuto a restituirla se il matrimonio fosse andato a monte; nondimeno, la dote costituiva spesso un’indubbia attrattiva per i giovanotti spiantati o con le finanze in pericolo! La sola condizione necessaria a siglare l’accordo era la generazione di figli legittimi: il suocero che, magari non aveva avuto figli maschi, era compensato nella perpetuazione della propria stirpe dalla prospettiva di avere dei nipoti. Nel mondo ellenico, infatti, il matrimonio era concepito come il mezzo tramite il quale un uomo poteva avere dei discendenti attraverso sua figlia. In cambio, il genero acquisiva certi diritti nei confronti del suocero.

Occorre precisare che in Grecia i matrimoni non erano “combinati”: gli antichi Greci non conobbero mai qualcosa di simile alla romana patria potestas; il pretendente, in quanto maschio adulto, “contrattava” la promessa sposa per proprio conto. Prendere moglie era una forma di acquisizione e sulla base di questo il matrimonio si poneva saldamente in un mondo maschile di pubbliche transazioni. Non aveva come suo centro la privata relazione tra marito e moglie.

Le storie di corteggiamento, sia chiaro, sono in realtà storie sull’ideale della relazione coniugale, perché il prezzo pagato per sposarsi forniva una valutazione dello stato coniugale. I personaggi femminili delle tragedie, per esempio, sono o vittime della forza (Ifigenia, Io) o furie vendicative (Clitemnestra, Medea): nella letteratura tragica, paradossalmente, la coppia più felice è forse quella di Edipo e Giocasta (naturalmente prima di conoscere la verità!).

Volgendo lo sguardo indietro all’epica arcaica, comunque, si riceve un’impressione del tutto diversa. L’Odissea, in fondo, è incentrata sulla ricostruzione di un matrimonio, così come un matrimonio da salvare è il casus belli della guerra di Troia. Con Priamo ed Ecuba, Ettore e Andromaca, Alcinoo e Arete, Odisseo e Penelope – per non parlare di Zeus ed Era – troviamo in Omero un’intera galleria di coppie sposate, e la rappresentazione del matrimonio è generalmente positiva.

Invero, nella tragedia, un tema ricorrente è la minaccia del potere femminile, il pericolo che gli uomini perdano il controllo delle donne. Questo timore ha il suo corrispondente comico nell’ipotesi fantastica avanzata da Aristofane di un’azione politica delle donne: il potere femminile è sempre trattato come uno sconvolgimento della natura delle cose, determinato per giunta dalla follia o dalla debolezza dei maschi. Sia la donna in questione Clitemnestra, Antigone o Lisistrata, la rivendicazione del potere da parte femminile è accolta dalle donne stesse come segno di un terribile orrore.

Le leggende greche parlavano anche di donne del tutto fuori di sé: erano le Menadi (Μαινάδες), letteralmente «le pazze» (dal verbo μαίνομαι, «impazzire», «folleggiare»). Di costoro si narra che lasciassero le città e si aggirassero per i monti, estatiche e violente, compiendo atti prodigiosi e sovrumani: giocavano con i serpenti, dilaniavano animaletti a mani nude, se s’imbattevano in uomini erano in grado di vincerli e di ucciderli. Il menadismo era di solito concepito come una punizione che ricadeva sulle comunità che osavano opporsi al potere di Dioniso (come narrano le Baccanti di Euripide). Il menadismo era la negazione della maternità e della successione, era un flagello paragonabile a una carestia, alla siccità o a un’epidemia; e, al pari di questi accidenti, si credeva di potervi trovare rimedio soltanto istituendo un giusto rapporto con la divinità.

Proprio nelle Baccanti euripidee il comportamento delle donne è una punizione alla resistenza a Dioniso, di cui il re di Tebe, Penteo, rifiuta di riconoscere la natura soprannaturale. Il dio allora spinge le Tebane, in preda alla follia estatica, a scorrere selvaggiamente le montagne della Beozia, attaccando villaggi e rapendo i bambini. Al loro posto si insediano in città le donne d’Asia che Dioniso ha portato con sé dalle remote piagge dell’India, sotto la sua protezione, fingendo di essere sacerdote di sé stesso. Penteo tenta di arrestare Dioniso, ma il dio si libera grazie a un prodigio, squassando il palazzo e offuscando poi la mente del sovrano, che viene indotto a raggiungere le donne per spiarne le azioni, travestendosi egli stesso da donna. Giunto sui monti, sarà la sua stessa madre, la regina Agave, a ucciderlo, squarciandogli il petto e facendolo a pezzi, avendolo scambiato per un leone.

Nient’altro era necessario a rendere effettivo un matrimonio se non la sua consumazione: il γάμος. Questo momento – la prima notte – era di solito l’occasione per celebrare una festa, chiamata allo stesso modo: attraverso questa si ritualizzava l’iniziazione sessuale della sposa, che era anche lo stadio più avanzato del suo percorso per entrare nell’età adulta. Fondamentale era il rito degli ἀνακαλυπτήρια, il cerimoniale con cui la matrona che se ne occupava (detta νυμφεύτρια) toglieva il velo dal capo della sposa e la presentava ufficialmente al consorte; questi allora la portava – a piedi o su un carro – nella propria casa, accompagnato da una processione con fiaccole e al suono dei flauti. La νυμφεύτρια li seguiva, mentre la madre della sposa li accomiatava e quella dello sposo dava loro il benvenuto. Dopo un rito di aggregazione, la νυμφεύτρια scortava la coppia al talamo.

Il giorno seguente poteva tenersi un altro corteo (la ἐπαύλια), con cui amici e parenti della donna portavano il suo corredo nella nuova casa. La regia del γάμος, comunque, era condotta principalmente dalle donne delle due famiglie e ruotava attorno alla sposa, alla sua vestizione: era senza dubbio lei la protagonista dell’evento. Mentre la ἐγγύη era l’atto di trasferimento, il γάμος era il rito della sua trasformazione.

Le attrattive di una donna erano caratteristicamente multiformi (ποικίλοι), e richiamavano quella superficie mutevole e complessa che, nella cultura ellenica, connotava le cose ingannevoli e avvolgenti. Secondo la concezione antica, i monili di una donna erano la rappresentazione materiale dei suoi modi adulatori e simboli del suo potere di seduzione: la femminilità avviluppa e intrappola l’uomo. L’epica, a questo proposito, fornisce l’esempio più notevole di questa concezione, cioè la cintura di Afrodite, una fascia i cui ricami rappresentano «l’amore e il desiderio e l’incontro, /la seduzione, che ruba il senno anche ai saggi» (Il. XIV 216-217). L’abbigliamento della sposa, infatti, includeva una cintura, perciò un eufemismo per indicare la consumazione del matrimonio era appunto «sciogliere la cintura». La sposa, in altri termini, era adornata in modo da poter sedurre lo sposo nel matrimonio. Ed è ciò che faceva Era, nell’Iliade, facendosi prestare da Afrodite la sua cintura, così da sedurre Zeus: il potere di Afrodite, infatti, si estende anche su di lui. E Zeus, di contro, ricambia rendendo la stessa Afrodite schiava del proprio potere e facendola innamorare di Anchise.

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