L’elegia dell’addio (Prop. III 25)

di F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina – 2. Augusto e la prima età imperiale, Bologna 2004, pp. 319-322.

 

 

È l’elegia del congedo, «viva come un corpo ferito e sanguinate» (A. La Penna), da alcuni studiosi considerata un tutt’uno con l’elegia precedente (in effetti, solo il codice N distingue la XXIV dalla XXV), e comunque con questa tematicamente unita in un «dittico dedicato al distacco» (M. Citroni).

Dopo cinque anni – tale è la durata della storia d’amore per Cinzia – viene il momento del discidium, anche se questo termine tecnico (indicante l’interruzione del rapporto e l’incamminarsi degli amanti per strade diverse) è qui del tutto assente. La donna, volubile e infedele, non ha mai osservato la fides nei confronti del foedus, il sacro patto degli amanti. I suoi continui tradimenti hanno reso il poeta lo zimbello dei salotti del bel mondo. Ma ora egli è deciso a troncare, per quanto dolore ciò gli costi, né l’artificioso pianto della puella potrà fargli cambiare idea. La motivazione sintetica della renuntiatio amoris è espressa al v.8, tu bene conveniens non sinis ire iugum. È la denuncia di un rapporto non simmetrico, fatta attraverso la metafora del giogo d’amore. È la constatazione di una disarmonica relazione e la conseguente rinuncia tenere ancora il collo sotto lo stesso giogo. Dopo lo struggente saluto rivolto alla porta dell’amata, testimone di crudeli repulse e di notti trascorse in lacrime all’addiaccio (secondo lo schema topico del paraklausìthyron), Properzio fa una previsione, che ha tutto il sapore delle maledizioni (dirae). Cinzia perderà presto la sua bellezza e, a causa delle rughe e dei capelli bianchi, sarà anch’essa respinta dai giovani amanti. Allora subirà a sua volta l’altero disprezzo che un tempo inflisse al poeta.

Donna. Mosaico, III sec. d.C. Pedrosa de la Vega (Palencia), Villa de La Olmeda.

L’invito finale a meditare in anticipo sul carattere effimero della bellezza fisica (eventum formae disce timere tuae!), espresso con parole nude come in un’epigrafe sepolcrale, ripete il miracolo di certe formule catulliane, pregnanti e definitive. Qui la gnome elegiaca assume un pathos altissimo dovuto, oltre che alla forma spoglia e lapidaria, alla collocazione particolare. Il cupo monito, in cui si condensa tutto il succo della quinquennale vicenda d’amore, non conclude solo l’elegia, conclude bensì tutto il III libro. Ma il II e il III libro, uniti al primo, costituivano «una raccolta che poteva figurare come pendant elegiaco dei tre libri delle Odi di Orazio, appena pubblicati» (M. Citroni); insomma, rappresentavano un corpus unitario (il IV libro ha tutt’altra ispirazione e fa parte a sé). Dunque, questo ultimo verso chiude il “canzoniere” di Properzio. E come l’ode oraziana conclusiva del III libro riprende la dedica proemiale a Mecenate in chiave autocelebrativa e ottimistica («Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo», III 30, 1), così quest’ultima elegia si collega alla prima del Monòbiblos, ma in termini di un desolato pessimismo: elegia della conquista la prima, elegia della renuntiatio amoris o dell’abbandono l’ultima, bilancio amaro di tutta l’esperienza passata. Più cupo di Orazio, ma anche di Catullo (del quale sembra richiamare qui il carme VIII), Properzio sigilla l’opera sua con un monito che sembra anticipare le espressioni buie del pessimismo medievale, dove il tema del vanitas vanitatum dell’Ecclesiaste trascorre nell’altro tema cristiano del memento mori (memento, homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris).

 

 

SEXTI PROPERTII ELEGIARUM LIBER III

XXV

 

Risus eram[1] positis inter convivia mensis[2],

et de me poterat quilibet esse loquax[3].

Quinque tibi potui servire fideliter annos[4]:

ungue meam morso saepe querere fidem[5].

5         Nil[6] moveor lacrimis: ista sum captus[7] ab arte[8];    semper ab insidiis, Cynthia, flere soles.

Flebo ego discedens[9], sed fletum iniuria vincit[10]:

tu bene conveniens non sinis ire iugum[11].

Limina iam nostris valeant lacrimantia verbis,

10            nec tamen irata ianua fracta manu[12].

At te celatis aetas gravis urgeat annis[13],

et veniat formae ruga sinistra tuae!

Vellere tum cupias albos a stirpe capillos[14],

a! speculo rugas increpitante tibi[15],

15        exclusa inque vicem[16] fastus[17] patiare superbos,

et quae fecisti facta queraris anus!

Has tibi fatalis cecinit[18] mea pagina diras[19]:

eventum formae disce timere tuae![20]

 

 

Ero oggetto di riso nei banchetti, quando le tavole

erano imbandite, e chiunque poteva sparlare su di me.

Ho potuto servirti fedelmente per cinque anni:

spesso rimpiangerai la mia fedeltà mordendoti le unghie.

Per nulla mi lascio commuovere dalle lacrime: già troppe volte mi sono lasciato

catturare da questa tua arte; sempre sei solita, Cinzia, piangere per gli inganni.

Io sì che piangerò andandomene, ma l’offesa vince il pianto:

sei tu che non permetti che il nostro legame proceda ben equilibrato.

Addio soglia lacrimante per le mie parole,

addio porta, malgrado tutto, non abbattuta dalla mia mano irata.

Ma ti tormenti l’età tarda con i molti anni, pur celati,

e vengano le rughe infauste per la tua bellezza!

Allora possa tu voler strappare dalla radice i capelli bianchi,

mentre lo specchio, ahimè, ti rinfaccerà le rughe,

e possa tu, a tua volta respinta, sopportare la superba arroganza,

e, da vecchia, possa tu lamentarti delle cose che anche tu hai fatto!

La mia pagina ti ha vaticinato questa funesta sorte:

impara a temere la fine della tua bellezza!

 

Coppia di amanti a conversazione. Statuetta, terracotta, 150 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
Coppia di amanti a conversazione. Statuetta, terracotta, 150 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

 

La fides in Properzio

 

Consideriamo due definizioni di fides.

«La fides è in senso proprio il “credito” di cui si gode presso il partner. Dal fatto che fides designa la fiducia che colui che parla ispira al suo interlocutore, e della quale gode presso di lui, si sviluppa fides come nozione soggettiva: non più la fiducia che uno risveglia in qualcuno, ma la fiducia che si mette in qualcuno»[21].

«La fides significa l’abbandonarsi, fiducioso e completo, di una persona a un’altra. Essa interviene come salvaguardia del vincolo sociale e in tutti i rapporti che collegano l’individuo ai suoi simili, sia che si tratti del matrimonio, dei vincoli tra il cliente e il suo patrono, oppure di un tutela, o dei contratti che istituiscono una società e stipulano delle vendite. Fides significa dunque tributare a ciascuno ciò che gli è dovuto, nel rispetto degli accordi stabiliti»[22].

«Fides compare, in Properzio, trentadue volte. Fra tutti gli usi, diciassette esprimono la fedeltà in amore, gli altri designano la lealtà, la confidenza o la credibilità in altri campi. Questa frequenza significativa prova che la fides è uno dei temi maggiori della sensibilità del poeta, ma, contemporaneamente, ci rivela un pensiero poco chiaro sulla fedeltà amorosa. Animo instabile, esprime una concezione della fides che oscilla fra quella di Catullo e quella di Tibullo. Come il primo, fuori da ogni possibilità di porre il suo amore sotto la tutela della legge, ritiene gli amanti legati da un contratto non scritto, ma si augurerebbe che i “patti” fossero stipulati davanti agli altari! Nel libero amore Properzio ricerca, come Catullo, la sicurezza della coppia ideale attraverso una fides che leghi un solo uomo e una sola donna per sempre. Questa idea si ritrova espressa nelle sue elegie sotto numerose formule, la più celebre delle quali è Cynthi prima fuit, Cynthia finis erit. La fides si presenta, allora, come un destino che può essere tragico, se l’essere amato non lo condivide, e che sfocia nel servitium amoris, trascinandosi dietro uno stato in cui l’uomo che ama si annienta per essere la “cosa” dell’amante. Questo succede a Properzio, perché Cinzia rifiuta di essere la sua univira. Non c’è dunque reciprocità, Properzio è il solo a praticare la fides. Ma la rottura di questa da parte di uno degli amanti non affranca l’altro dal suo legame. Né la morte, né il piacere con un altro liberano da un’unione la cui importanza non è diminuita dall’assenza di sanzione legale. Questo è il senso dei rimproveri del fantasma di Cinzia al suo amante d’un tempo e della sua affermazione di fedeltà. Nello scambio della fides, egli privilegia l’unione fisica sull’unione delle anime. Questo lo avvicina piuttosto a Tibullo che a Catullo, di cui ha l’impeto, non le esigenze»[23].

 

***

 

Note:

[1] Risus eram: «Ero oggetto di riso»; risus è sostantivo, non participio. Ancora un esordio ex abrupto; è posta bruscamente in incipit la parola che riassume la penosa condizione del poeta, divenuto lo zimbello di tutti.

[2] positis… mensis: «nei banchetti, quando le tavole erano imbandite». Nota l’iperbato.

[3] et de me… loquax: «e chiunque poteva sparlare su di me». loquax sviluppa un significato peggiorativo di loquor, cioè «non parlar d’altro», e vuol dire «chiacchierone» (cfr. loquacitas, loquaculus).

[4] Quinque… annos: la durata della relazione con Cinzia è di cinque anni, probabilmente dal 29 al 25 a.C. Si noti l’iperbato che incornicia, presentandolo come ormai concluso, il lungo e fedele servitium. servire fideliter: sono espressioni chiave dell’ideologia amorosa di Properzio e degli elegiaci. Servire richiama il servitium amoris, formula che equipara il rapporto amoroso a quello esistente tra padrone e schiavo. Si tratta di un nucleo tematico che genera metafore indicanti la subalternità dell’innamorato nei confronti della domina dispotica e volubile, che impone servizi più umili, infligge punizioni, esige dall’amante una dedizione cieca. Fideliter anticipa fidem del verso seguente.

[5] ungue… fidem: «spesso rimpiangerai la mia fedeltà mordendoti le unghie». Ungue…morso, ablativo assoluto; ungue, singolare collettivo; querere, futuro apocopato di queror = quereris. Cfr. elegia II 4, 3 et saepe immeritos corrumpas dentibus ungues. fidem: in posizione di risalto, è parola chiave in Properzio e Catullo. Indica la lealtà nei confronti del foedus (il sacro patto garantito dagli dèi), alla quale sottostà l’amore coniugale. A tale valore (oltre che alla castitas e al pudor) Properzio pretenderebbe d’improntare il proprio rapporto con una cortigiana libera e spregiudicata. In I 6, 18 afferma che nihil infido durius esse viro («non c’è nulla di peggio di un uomo infido», cioè di un amante che non onora la fides); in II 26, 27 la fides è associata all’altro valore tipicamente romano della constantia: multum in amore fides, multum constantia prodest. Cfr. anche CAT. 76, 3 dove il poeta dichiara di essere sempre stato leale verso la propria donna (nec sanctam violasse fidem) e LXXXVII Nulla fides nullo fuit umquam foedere tanta / quanta in amore tuo ex parte reperta mea est, dove fides è associata a foedus.

[6] Nil ( = nihil): «Per nulla», accusativo avverbiale.

[7] sum captus: capio è verbo tecnico della lingua militare, dove significa «catturare», «fare prigioniero». Trasferito nell’ambito della militia amoris (in base alla metafora che assimila l’more alla guerra e l’amante al soldato), indica l’irretimento amoroso. Dall’idea della militia amoris, che implica una visione dell’amore come sentimento conflittuale e violento, discende tutto il repertorio di metafore militari comuni nell’elegia d’amore latina. Ma il topos era già presente nella lirica greca sia ellenistica sia arcaica.

[8] ab arte: l’uso di ab con un sostantivo astratto nel complemento di causa efficiente non è raro in Properzio; qui dà maggior risalto e concretezza, quasi personificando la nozione astratta. Ars indica un’abilità acquisita con lo studio o la pratica (Ernout), una conoscenza tecnica anche nociva (cfr. VERG. Aen. II 152 ille dolis instructus et arte Pelasga). La sfumatura di senso negativo è presente in artificium, artificiosus e ancor più nei derivati italiani: «artificio, artificiale, artificioso». All’abbandono, Cinzia reagisce sempre in modo isterico e plateale, cfr. I 6, 15 ss. dove copre d’insulti il poeta e si graffia rabbiosamente il viso; in IV 8, sorpreso Properzio a banchetto con due etere, lo colpisce violentemente, obbligandolo a giurare eterna fedeltà.

[9] Flebo ego discendens: il verbo flere in incipit e il pronome personale contrappongono il pianto vero del poeta a quello artificioso e scenografico di Cinzia: «Io sì che piangerò andandomene».

[10] sed fletum… iniuria vincit: «ma l’offesa vince il pianto», nel senso che la violazione alla legge (iniuria, da in + ius) rappresentata dal foedus amoris è un motivo per lasciare Cinzia più forte del dolore dell’abbandono. Iniuria è termine del lessico della poesia erotica.

[11] tu bene… iugum: costr. tu non sinis ire iugum bene conveniens, e cioè: «(sei) tu (che) non permetti che il (nostro) legame proceda ben equilibrato», letter. «non permetti un giogo che si adatti bene (ad entrambi)». Si noti la posizione enfatica di tu, contrapposto a ego del verso precedente. La metafora del giogo che grava equamente sui due buoi (metafora campestre e matrimoniale, giacché iugum è in con-iunx e in con-iungo) allude a un rapporto amoroso paritetico, nel quale entrambi i contraenti del foedus s’impegnano con pari diritti e doveri. Cfr. I 1, 32, dove il poeta augura agli amici proprio questa parità: sitis… in… amore pares. Ma la nozione stessa di servitium amoris implicava la dissimmetria del rapporto.

[12] nec… ianua fracta manu: il «lamento davanti alla porta chiusa» dell’amata è codificato nello schema letterario del paraklausìthyron, diffuso nella poesia erotica, cfr. TIB. I 1, 56 sedeo duras ianitor ante foras; I 1, 73 frangere postes / non pudet et rixas inseruisse iuvat. Quest’ultima citazione mostra come l’escluso poteva reagire violentemente, dando in escandescenze, buttando giù la porta, picchiando il portinaio. Ma Properzio ricorda di non avere mai trasceso, pur avendone i motivi (tamen). In II 5, 21 aveva condannato le intemperanze topiche previste in questo schema letterario come proprie di un rusticus, indegne di un poeta: «Io non strapperò le vesti dal tuo corpo di spergiura, né la mia ira infrangerà la tua porta chiusa. / Neanche oserei, adirato, afferrarti per i capelli elegantemente annodati, / tantomeno graffiarti con le dure unghie dei pollici. / Un bifolco, di cui l’edera non cinse mai il capo, / cerchi questi litigi talmente turpi».

[13] At… annis: «Ma ti tormenti l’età tarda con i molti anni, pur celati». Difficile dire se celatis… annis abbia valore strumentale, sia un ablativo assoluto con valore concessivo («sebbene tu celi gli anni») o un participio congiunto dipendente da gravis («opprimente per gli anni, pur celati»). Ma il senso concessivo di celatis è fuori discussione. At: ha valore enfatico (apre spesso le exsecrationes) piuttosto che avversativo, a meno che non contrapponga il comportamento signorilmente civile del poeta che si è astenuto da ogni violenza, alla crudeltà della vecchiaia che, invece, non risparmierà Cinzia. Per una cortigiana, per una donna che vive della propria bellezza, la vecchiaia è una realtà spaventosa. urgeat: congiuntivo ottativo come il seguente veniat.

[14] Vellere… capillos: «Allora possa tu voler strappare dalla radice i capelli bianchi», reazione topica della bella donna che scopre sul suo corpo i segni della vecchiaia, cfr. TIB. I 8, 45 tollere cum cura est albos a stirpe capillos.

[15] a! speculo… tibi: «mentre lo specchio, ahimè, ti rinfaccerà le rughe». Increpito, intensivo di increpo «sgridare ad alta voce, rinfacciare», implica la personificazione dello specchio. Il verdetto dello specchio diverrà un topos (si pensi alla regina cattiva di Biancaneve: «Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?»).

[16] exclusa inque vicem: «a tua volta respinta». «Siamo addirittura in presenza di un paraklausìthyron alla rovescia, in quanto è la donna ad essere esclusa» (P. Fedeli).

[17] fastus: usato metaforicamente, indica il disprezzo (cfr. fastidium e fastidire), l’orgoglio, l’arroganza del vincitore, cfr. VERG. Aen. III 326-327 stirpis Achilleae fastus iuvenemque superbum / tulimus. Nella poesia erotica è un termine tecnico per indicare la durezza d’animo, lo sguardo fermo e sprezzante di chi non cede all’amore. In I 1, 3 tum mihi constantis deiecit lumina fastus, «allora abbassò il consueto orgoglio del mio sguardo», indica la condizione del poeta prima di cedere al servitium amoris.

[18] cecinit: cano, termine della lingua augurale e magica le cui formule erano melopee ritmate (carmina), ha il significato originario di «vaticinare», «predire».

[19] diras: dirus, -a, -um appartiene alla lingua religiosa e significa «di cattivo augurio, sinistro». Il sostantivo dirae, -arum significa «cattivo presagio, maledizione». Dirae, «le Furie», è il titolo di un poema in esametri falsamente attribuito a Virgilio. Il termine indica anche un sottogenere della letteratura greca e latina.

[20] eventum… tuae: «impara a temere la fine della tua bellezza». Il monito cupo espresso con concisione oracolare o, meglio, epigrafica ha un sapore medievale.

[21] E. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, tr. it. Einaudi, Torino 1981, pp. 87 ss.

[22] M. MESLIN, L’uomo romano, Mondadori, Milano 1981, p. 216.

[23] D. FASCIANO, La notion de fides dans Catulle et les élégiaques latins, RCCM 240 (1982), 24-25.

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