L’Epicureismo di Lucrezio nella crisi del I secolo a.C.

di PIAZZI F., GIORDANO RAMPIONI A., “Multa per æquora”. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. Vol. I – Dall’età arcaica all’età di Cesare, Cappelli Editore, Bologna 2004, pp. 432-434.

 

Nel I secolo a.C. una grave crisi investe tutti gli aspetti del mondo antico. Profondi rivolgimenti politici, sociali, spirituali imprimono un corso nuovo alla storia di Roma e dell’Occidente. Nella vastità del nuovo organismo statale ed etnico che risulta dalle guerre di conquista, gli dèi tradizionali, protettori di piccole comunità regionali, appaiono inadeguati a regolare la vita degli uomini. La concezione giuridica espressa nelle XII Tavole, specchio di una moralità patriarcale e ingenua, è ormai un relitto del passato e l’etica arcaica dei boni mores è un miraggio nella Roma che da pólis si è fatta metropoli.

Con la rovina dei piccoli agricoltori liberi, a causa dell’economia schiavista e delle guerre che li tenevano a lungo lontano dai campi, si estingue la piccola proprietà terriera, tradizionale struttura economica di Roma antica, e dilaga il latifondo. L’onda della rivoluzione agraria dei Gracchi si fiacca sugli scogli della dura reazione oligarchica. Salgono la scala sociale i ceti mercantili e “borghesi” degli equites, ben decisi a strappare per sé alla nobiltà, miope e inetta, un potere politico proporzionato al potere economico e finanziario che essi hanno ormai raggiunto.

Nuovi modelli di comportamento s’impongono, nuovi tipi umani si affacciano alla ribalta sociale: il generale idolatrato dalle milizie (divenute, con la riforma di Gaio Mario, professionali: nuovo strumento di avventure e causa di conflitti civili); gli usurai, i grandi mercanti e imprenditori soprattutto italici; i giovani aristocratici educati in modo raffinato alla scuola dei maestri orientali, da quando sui rudi valori collettivistici dell’arcaica repubblica comincia a prevalere l’individualismo e l’otium intellettuale; cioè da quando la cultura assume un valore autonomo e, lungi dall’essere solo un supporto per l’azione pratica, come voleva Catone, diviene qualcosa di valido di per sé e da ricercare per la sua sola natura. In questo contesto di mutamenti e contrasti civili, reso cruento dagli avvenimenti militari e tragici che fanno da sfondo alla breve vita di Lucrezio, l’Epicureismo trova le condizioni ideali per la propria diffusione.

Filosofo. Busto, marmo pario, II-III sec. d.C. Museo Archeologico di Delfi.

Già in Grecia questa dottrina materialistica, cosmologica e morale, era legata a una situazione di crisi. L’impresa di Alessandro, infrangendo le barriere della pólis, aveva dischiuso un orizzonte sconfinato agli occhi dei contemporanei, obbligandoli a riconsiderare una prospettiva sopranazionale la religione e i valori tradizionali. La morte della pólis, intesa come possibilità per i liberi cittadini di esplicare la propria personalità nella partecipazione diretta alla vita pubblica, induceva gli individui a ripiegarsi nella vita privata e interiore. S’invocava una filosofia che mirasse a consolare e nutrire di solitarie meditazioni le coscienze degli “individui”. Erano nate così in Grecia nel III secolo a.C. le filosofie della crisi: l’Epicureismo, lo Stoicismo, lo Scetticismo, il Cinismo, tutte volte alla ricerca della tranquillità individuale, consistente nel distacco dalle cose del mondo e nel ripiegamento su se stessi.

L’Epicureismo indica nel tetraphármakon (“quattro rimedi”) la via per conseguire l’ataraxía o “imperturbabilità”: gli dèi non sono da temere; la morte neppure; il bene si raggiunge facilmente; il male è sempre tollerabile. In particolare, è abolita la religio, la paura degli dèi. Questi, infatti, sono esseri perfetti e felici nella pace degli intermundia (zone tra terra e cielo in cui risiedono), incuranti delle vicende umane. Da essi non bisogna attendersi benefici né punizioni. Un corollario fondamentale è l’invito a rinchiudersi in una dimensione privata, politicamente disimpegnata – láthe biōsas (“vivi nascosto”) – e ricercare la verità con pochi amici costituenti una piccola comunità di eletti.

Nel I secolo a.C. l’Epicureismo si diffonde a Roma, dove tra l’89 e l’84 a.C. tiene lezione il filosofo Fedro, amico e maestro di Cicerone, alla cui scuola si recano esponenti della nobilitas, come Cesare, suo suocero Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, l’amico e editore di Cicerone, Tito Pomponio Attico, il cesaricida Gaio Cassio Longino. Negli anni immediatamente successivi fiorisce a Napoli un vero e proprio circolo epicureo, i cui esponenti di maggior spicco sono Sirone e Filodemo di Gadara. Cicerone ci informa che circolavano in Italia grossolani volgarizzamenti dell’opera del “Maestro di Samo” e che numerosissimi seguaci erano attratti dalla natura edonistica e liberatoria di un messaggio che, a suo dire, legittimava una vita dissoluta, fatua, che rincorre il piacere immediato nell’epidermiche sensazioni del dies.

L’otium predicato da Epicuro vanifica l’ideale del civis, inteso al bene comune e compromette la dignitas dell’uomo, che per Cicerone è ancora homo politicus: che vive e che ama vivere nella pólis.

Certo, l’esaltazione di un ideale “separato” di sapiente non è cosa di per sé rivoluzionaria. Può finanche essere un fattore di stabilità politica, come nei regni ellenistici, dove va incontro al desiderio del monarca, ben lieto che i cittadini gli deleghino la guida della cosa pubblica.

Ma lo Stato romano si reggeva ancora agli inizi del I secolo sul culto del negotium, sulla priorità del sociale rispetto al privato, sull’idea di un universo gerarchicamente organizzato e posto sotto la tutela di divinità provvide che guidano le sorti dei popoli, specie quelle di Roma, investita di una missione per il bene di tutti gli uomini. In questo contesto politico-religioso, il verbo di Epicuro predicato da Lucrezio suona come un messaggio potenzialmente eversivo, dissolvitore di valori tradizionali, formatore di coscienze scettiche e iconoclaste.

Il primo bersaglio polemico scelto da Lucrezio, fin dagli inizi del poema, è il timore religioso (religio), che egli considera effetto dell’ignoranza delle leggi meccaniche della natura e causa di infinite sofferenze morali per gli uomini. Di qui il progetto educativo di diffondere – con fedeltà entusiastica e ardente, ma anche rigida e integrale – la filosofia di Epicuro, il primo greco che «osò levare gli occhi contro la religione, che incombeva minacciosa dal cielo».

Se, come vuole Varrone, la religione a Roma è un affare di Stato, perché di questo Stato essa è essenziale elemento di coesione, l’attacco di Lucrezio contro la paura degli dèi è – a prescindere dalle sue reali intenzioni – un attacco politico. Tanto più temibile, se si considera che il messaggio epicureo, nonostante il carattere originariamente elitario, a Roma non si rivolgeva, come lo Stoicismo, solo alla classe dirigente, ma a chiunque, compresi le donne, gli schiavi e perfino i “barbari”.

Non si deve però esagerare – come ha fatto certa critica fortemente ideologizzata – la portata rivoluzionaria del De rerum natura. Una lettura del poema che attribuisca a Lucrezio prioritari interessi sociali, fino a farne un emancipatore del proletariato dall’alienazione politica e religiosa – perfino un marxista ante litteram – è fuorviante, banalmente attualizzante, poco rispettosa delle ragioni del testo lucreziano.

Scena conviviale. Affresco, I secolo, da Pompei. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Non c’è prova alcuna che Lucrezio fosse il consapevole e accettato oratore di un movimento popolare e i rari giudizi degli antichi su di lui, compreso quello di Cicerone, fanno esclusivo riferimento all’impegno linguistico e stilistico.

Che Lucrezio non fosse un «riformatore sociale», ma si rivolgesse a un’élite di persone colte, lo prova la sua amicizia con Gaio Memmio, esponente della nobilitas e patrono di letterati. Lo prova la centralità data nel poema agli aspetti più ostici della speculazione di Epicuro, come la dottrina fisica: il moto incessante di aggregazione e disgregazione degli atomi nel vuoto e le cause che lo determinano, la pluralità dei mondi e degli dèi, l’eterna vicenda di forze produttive e distruttive dell’universo; e poi il procedere dalla fisiologia alla psicologia e, infine, all’etica, secondo i procedimenti di una filosofia così ardua che – come è detto in più punti del poema – ab hac uulgus abhorret.

Inoltre, l’Epicureismo è a Roma una predicazione rivoluzionaria solo «nei limiti della sua essenza critica distruttiva, incapace […] d’esprimere un ideale positivo agevolmente accessibile dalle forze in avanzata» (Canali). Infine, non c’era, a Roma, una base sociale davvero rivoluzionaria, in grado di assimilare o esprimere una concezione del mondo nuova: in pratica, di rovesciare la società “schiavista”. Da un lato, anche il movimento “democratico” era privo di un’ideologia omogenea e integralmente rivoluzionaria, dall’altro, «la dottrina epicurea non poteva […] divenire una forza spirituale capace di orientare e guidare il movimento, perché il suo intellettualismo e la mancanza di prospettive politiche e sociali le impedirono di avere una diffusione più vasta» (Canali).

 

2 pensieri su “L’Epicureismo di Lucrezio nella crisi del I secolo a.C.

  1. Perché ci vorrà molto tempo e sforzi per scrivere in italiano ciò che vorrei, posso solo limitarmi alla frase in questo articolo: “láthe biosas” (“vivi nascosto”). Questa particolare traduzione non può eseguire la verità dell’insegnamento epicureo. ‘Vivere a margine dell’ordine corrente. Lontano da ogni vanità, preservando soprattutto la tua tranquillità.’ Questo è quello che dice Epicuro nel momento in cui lo stile di vita e la morale hanno cominciato a svanire dopo l’età dell’oro di Pericle. Vi ricordo qui le parole di Giovenale, che mette a confronto (paragona) il modo di vivere di Epicuro con quello di Socrate.
    http://www.perseus.tufts.edu/hopper/text?doc=Perseus%3Atext%3A2007.01.0093%3Abook%3D5%3Apoem%3D14
    Juv. 5.14 Satura XIV 316-322
    Mensura tamen quae sufficiat census, siquis me consulat, edam: in quantum sitis atque fames et frigora poscunt, quantum, Epicure, tibi parvis suffecit in hortis, quantum Socratici ceperunt ante penates; numquam aliud natura, aliud sapientia dicit, acribus exemplis videor te eludere?

    Non dimenticare che la scuola epicurea ha durata molto più lungo di qualsiasi altra, ed è stata aggredita come nessun’altra. La traduzione in latino e la realtà del cristianesimo hanno portato a paraphrasare e deformare il messaggio autentico. Soprattutto la questione dell’edonismo.
    L’elemento chiave della vita umana, la felicità e l’elevazione, il buonumore, il benessere o ‘evesto’ (εὐεστώ) come dice Democrito. Epicuro da il nome ‘idoni’ (ἡδονή). Per distinguerla dai piaceri comuni (come cibo, bevande, erotismo, intrattenimento, ecc.), l’ha detto ‘katastimatiki’ (Καταστηματική) “Acquista (condizionale) Piacere”, mentre i piaceri comuni le diceva ‘en kinisi’ (εν κινήσει) “in movimento”, e perché spostano l’attenzione, si danno da fare. In latino la stessa distinzione viene fatta tra ‘voluptas stabilis’ e ‘voluptas movens’. [la parola voluptas, è più carica di ombra sensuale.]

    Diogenis Laertii – De vitis, dogmatibus et apophtegmatibus clarorum philosophorum libri 10 – Epicuro –
    ιη. Ουκ επαύξεται η ηδονή εν τη σαρκί, επειδάν άπαξ το κατ’ ένδειαν αλγούν εξαιρεθεί, αλλά μόνον ποικίλλεται.
    (XVII. Non crefcit in carne voluptas, cύm femel quod per indigentiam dolorem adferebat, ablatum eft, fed folum variatur.)

    Et Epicurus in libro De haerefibus ita dicit :
    …Η μεν γαρ αταραξία και απονία, καταστηματικαί εισιν ήδοναί ή δε χαρα και ευφροσύνη, κατα κίνησιν ενεργεία βλέπονται.
    Nonque perturbationis dolorisque vacatio constitutiva sunt voluptates. Gandium vero aelatitia secundum motum … cernuntur.

    Mentre per la maggior parte il piacere è un movimento degli organi di senso ‘ταραχή’, che li fa sentire un po di piacere, per Epicuro il piacere Katastimatiki è “il fine (il massimo) del idoni”, lo stato d’animo piacevole che si verifica quando manca qualsiasi inconveniente: la fame, la sete o di un altro desiderio, che altrimenti si chiamava Assenza de la douleur, ‘αταραξία’ o ‘απονία’. Questa situazione di serenità assoluta è per Epicuro il sommo bene; quando messo da parte la ‘sensazione, ‘positivamente o negativamente, che agita l’uomo, sgorga dall’essere interiore dell’uomo l’esistenza umana superiore. Infine, sappiamo empiricamente che quando è l’uomo in stato di equanimità, αταραξίας può riempire letteralmente l’esistenza con un sentimento ‘edonistico’, che non ha nulla a che fare con il ‘piacere’ fisica che tutti conosciamo, ma non si può descrivere con le parole.. Il ‘καταστηματική ηδονή’ di Epicuro è il più alto stato di coscienza che l’uomo possa conquistare, la ‘ευδαιμονία’ dei Greci o il Nirvana degli Indiani. In breve, Epicuro dice: Dal momento che il meglio per l’uomo è la sua ‘ευδαιμονία’, che quando ci riuscirà sarà visto nel ‘καταστηματική ηδονή’, si tratta di stare in uno stato ‘αταραξίας’ non eccitare di fronte a passioni e desideri.

    Spero che la combinazione di google traduzione e il poco che parlo la lingua italiana riescano a produrre il significato che vorei dare. Piuttosto, se qualcuno è interessato a ottimizzare il presente, ha il suo significato. grazie

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